sabato 14 novembre 2020

Ombre rosse

 

Negli anni sessanta, per arrivare al paesino che si scorge in alto sotto le rocce non c'era altro che un sentiero: un troi che risaliva serpeggiando dal fondovalle affiancato da strapiombi che terminavano tra i massi del fragoroso torrente.

Poco più che bambina, nei giorni di festa la mia amica si inerpicava su per la salita con un fascio di giornali e portava agli abitanti del villaggio -molti anziani che di rado scendevano a valle- l'ultimo numero de "L'Unità" appena arrivato con la corriera del mattino.

Fra tutti i destinatari del quotidiano, Gjéni -emigrato in Francia, provetto suonatore di fisarmonica- è quello che più profondamente si rende conto della straordinarietà di quella consegna e considera con ammirazione quella ragazzina dagli occhi sorridenti che rinuncia a un paio d'ore di svago per fare qualcosa che considera importante.

Le dice "Sai, è tanto che ti guardo arrivare fin quassù e vorrei; vorrei farti un regalo. Dimmi: tu cosa pensi del Partito Comunista?". E' una domanda impegnativa "Penso" risponde lei "che sia una cosa seria".

L'uomo è evidentemente soddisfatto di quello che ha sentito e scompare dentro casa. Si sente che risale la scala di legno; poi si ripresenta sulla porta con un dipinto a tempera racchiuso in una cornice costruita sul suo banco di falegname: il ritratto di Stalin.

Con questa ragazza, ora mamma e nonna di altre giovani donne che trasportano giù per le generazioni i loro occhi sorridenti, scendiamo al piano di sotto a cercare un certo baule e dopo sessant'anni l'astuto vecchio è li. Ha notevolmente sofferto per l'umidità dello scantinato ma i baffi e la capigliatura sono inconfondibili.

Non è per particolare simpatia per il personaggio: è pensando a Gjéni che mi prendo su il vecchio quadro malconcio e recupero il recuperabile con matita e bacchetta per sfumare. Applico una patina di olio di noce che fa riaffiorare i baffi, il ciuffo, i bottoni della casacca dipinti dall' anziano abitante di un paesino, che non ho mai conosciuto e che credeva in quei simboli. Alla fine rimetto in squadra la cornice sormontata dal fregio con la falce e il martello. 

Sono vecchie cose di paese che forse capiamo ormai solo noi ma non so se tutta la paura che si percepisce in giro sarebbe la stessa se non  fosse progressivamente venuto a mancare ogni riferimento -giusto o sbagliato- e non ci si ritrovasse tutti abbastanza smarriti in questa precarietà. E adesso?

Da oggi nei paesini dove ancora dei volonterosi tengono in piedi i locali, la luce delle osterie è spenta. Rientreremo a casa senza quel breve momento conviviale che più che il senso alcolico della cosa, rappresentava per molti l’unica occasione di socialità. E’ triste certo ma…

Abbiamo idea di cosa abbiano passato gli abitanti di Stalingrado durante l’assedio? O i profughi che nel 1917 hanno dovuto scappare dalla Carnia lasciando qui tutto perchè gli austriaci avevano sfondato il fronte e stavano per arrivare nei nostri paesi?

Forse, paragonando il presente a questi eventi magari finiremo per concludere che non sta andando proprio così male e che ne verremo fuori come tutte le altre volte, quando generazioni delle quali non ci è rimasto nemmeno il nome, alla fine di ogni pestilenza imbiancavano a calce le pareti delle chiese un po’ perché altri disinfettanti non si conoscevano ma anche per dare un segno con tutto quel candore: l’idea che si ricominciava.


Se tu pensi alla storia degli avi pieni di grazie
é questa ad essere la formula stessa
(da Vita di Milarepa)










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